Anche se è innegabile non è facile circoscrivere cosa sia la fragilità, categoria non solo umana, ma universale degli esseri viventi e non.
La fragilità è una proprietà della libertà, definisce un confine oltre il quale non ci si spinge, perché si incorrerebbe in una rottura, nella frantumazione. La fragilità erige una limitazione alla propria iniziativa, uno sbarramento che trattiene, perché se valicato vi sarebbero conseguenze dannose per la propria incolumità. Così, una grave osteoporosi genera una fragilità, perché impone una soglia di attenzione nello stress a cui sottoporre le proprie ossa, da non valicare per non correre il rischio di fratture.
La fragilità, il proprio potenziale di incrinatura, assume un ruolo fondamentale nella propria gravitazione esistenziale. Perché, consapevolmente e sovente non, la fragilità magnetizza le proprie rotte esistenziali, attraverso la sua strategia della distanza. Organizza ciò da cui ci si mantiene lontani, dagli eventi o dalle condizioni che si teme potrebbero causare un danno alla propria integrità, al proprio sentimento di sicurezza. (Infrangibile significa invece che non è necessaria alcuna attenzione per il mantenimento dell’integrità.)
Si è fragili nel tenersi un lavoro anche quando inaridisce, perché se perduto terrorizza quel che si troverebbe o non si troverebbe. Si è fragili quando non si abbandona una relazione ormai spenta, perché impaurisce di frantumarsi nella solitudine. Si è fragili quando si tace invece di farsi sentire, perché paralizza il timore di poter perdere legami. La fragilità disegna la mappa dei luoghi e delle opportunità esistenziali che ci si preclude, frenati dal timore di non sapersi rimettere in piedi, di non saperne uscire salvi.
In molte fragilità è presente un ingrediente psicologico, ovvero il modo attraverso il quale la mente elabora e interpreta i fatti, caratterizzando emotivamente e cognitivamente la loro minacciosità. Il vissuto di minaccia è sempre relativo, perché riguarda la relazione tra i fatti e quanto ci si stente capaci di affrontarli senza uscirne danneggiati, sinistrati. Ed è un prodotto esperienziale, generato dalla vita vissuta e dalle ferite patite, soprattutto nell’infanzia. Perché la fragilità, nel dare vita a un mondo da cui proteggersi, è generata dalla materia con cui si è costituiti e costruiti, che è l’impasto di cicatrici da cui si è imparata la possibilità la propria friabilità.
Può accadere di essere scaraventati nella fragilità, nel campo minato di esperienze che mai si sarebbero cercate. Costretti all’abbandono, alla perdita. Costretti a sopportare il fallimento, la lacerazione, cercando di uscirne integri. Spesso sono occasioni nelle quali ci si sorprende di sé stessi, perché si scoprono modi d’essere e di sentire che non si era immaginato di possedere. Ci si scopre meno fragili di quanto temuto.
Poi vi sono fragilità che rimangono intoccate, baluardi e torrioni ben saldi nel tenere distanti da modi di essere trasformati in minaccia. Fa differenza allora il rapporto con la propria fragilità. Se è stata pacificata e accettata serenamente la prigione che produce nei modi di essere. O se invece, poco o molto, tormentano le sue catene, l’obbligo che la fragilità esige nei modi di agire e di sentire. Qui la fragilità rivela il suo potere e la sua prigione, quando la paura di uscirne a pezzi, di non riuscire a sopravvivere alla propria distruzione, domina il desiderio di essere più liberi.