È un tempo rivelatore il tempo che si trascorre lontano da ogni sguardo, senza nessuno che potrebbe vedere quel che facciamo e come, liberi/e e liberati/e nella solitudine domestica, affrancata dalla preoccupazione di doversi curare delle percezioni degli altri, senza altro giudice di sé stessi/e che sé stessi/e. È un tempo significativo, perché svela molto della stoffa di una persona, della natura dei suoi valori e di ciò che la definisce nella sua unicità.
Quando quel che facciamo non è per nulla infiltrato dalla preoccupazione del giudizio degli altri, quando non abbiamo da considerare la nostra comunicazione con gli altri e la coesistenza dei nostri comportamenti con quelli delle persone, quando siamo nascosti, riparati e invisibili, che persone siamo?
Quali sono le abitudini che occupano questo tempo appartato, protetto e sicuro? Liberi/e di, fare quel che desidera, perché si è liberi/e da, dal dover prestare attenzione al giudizio degli altri e alla relazione con gli altri.
Forse la dignità, la capacità, nelle asperità, di conservare intatta un’idea di sé, uno stile nel corpo, nei gesti e nei pensieri, si forgia e si educa nella solitudine, quando non vi è nessun altro che sé stessi/e a sapere quel che si è. Perché è in questo tempo ritirato, esente dal doversi preoccupare degli altri, che prende forma quel che si vuole essere. E tanto più è precisa, costante e ricorrente quanta “forma”, più solide saranno le radici della propria dignità, inviolabile negli accadimenti e nelle esperienze, perché allenata e cementata nell’esperienza con sé stessi/e.
Sono note le scrupolose e riflettute abitudini che avevano nel loro tempo solitario Mandela oppure Gandhi: la cura costante del proprio corpo pur nella precarietà, il tanto tempo del pensiero dedicato alla lettura, alla scrittura o alla meditazione, i pochi oggetti utilizzati con delicatezza. Perché è nella solitudine che si modellano i pilastri del proprio carattere, attraverso i modi attraverso cui, soli/e con sé stessi/e, ci si occupa del proprio corpo, della propria mente e di ciò che si ha intorno.
Dunque, quando sono spenti i riflettori, cosa si fa nella propria solitudine? Cosa si legge o si guarda? Su cosa si riflette? Quali abitudini abbiamo scelto di avere? Quanto si rimane curati nell’abbigliamento e nel corpo, anche se soli/e? Quanto si ha attenzione per gli oggetti e lo spazio da cui si è circondati? Oppure, è un tempo che perde la cura dei gesti e della bellezza, affidato alla pigrizia o alla mente catturata da ciò che è più facile, anche se povero di contenuti?
Si potrebbe dunque sintetizzare: è un potente nutrimento della propria dignità e della propria autostima saper vivere nella propria solitudine ciò che di meglio si può essere.