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GianMaria Zapelli elsewhere

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Quanto sappiamo lottare e perché ci rende differenti

Quanto sappiamo lottare e perché ci rende differenti

Scriveva Brecht: “Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi; altri che lottano un anno e sono più bravi; ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi; però ci sono quelli che lottano tutta la vita: sono gli indispensabili.”

Nel dare parole per descrivere la nostra identità estraiamo dalla nostra uguaglianza agli altri ciò che ci rende differenti e unici. Per questo, il vocabolario a cui si attinge per raccontare le proprie caratteristiche è largamente uguale a quello di molti: disponibilità, determinazione, passione, sensibilità, impegno, affidabilità.

“Lottare” è una di quelle caratteristiche che frequentamene si identificano nel descrivere sé stessi. Quasi tutti annoverano di essere capaci di lottare o di aver lottato, per realizzare un risultato importante per la propria vita. Occasioni nelle quali compiti o traguardi hanno richiesto di attingere a tutte le energie e la volontà a cui si poteva ricorrere.

Perché lottare è questo: è lo sforzo che ci impegna al limite di noi stessi. Nella lotta dobbiamo opporci, contrastare forze che altrimenti ci farebbero soccombere, rinunciare, perdere. Nella sua natura più profonda, non si lotta contro gli altri, ma contro sé stessi, contro ciò che di sé non cerca il limite, perché lo teme, lo evita. Perché quando si è arrivati al limite delle proprie risorse è molto probabile la sconfitta. Lottare è dunque, nella sua essenza, contrastarsi: contro la propria paura, contro la propria stanchezza, contro il proprio scetticismo, contro il proprio dolore.

A volte la lotta porta allo scontro con gli altri, che sovente viene deciso dalle proprie capacità, dalla propria tenacia o dal proprio coraggio. Risorse che per appartenerci richiedono prima di lottare contro sé stessi.

Sicché, la differenza identitaria, e quindi nel condurre l’esistenza, non è nella presenza o meno nella propria vita della lotta. Tutti ne abbiamo esperienza, di aver lottato. È invece differenza quanto abbiamo lottato e si lotta, e per cosa.

Si lotta per i propri figli, ma non sono uguali gli sforzi, perché possono essere occasionali oppure costanti, per risparmiare a beneficio degli gli studi, oppure per correggere alcune delle proprie abitudini che limitano la propria efficacia educativa. Così, si può lottare episodicamente per un proprio valore o tutte le volte che ci si scontra con la propria pigrizia, il proprio scetticismo o il proprio timore, che porterebbero lontani da ciò in cui si crede.

Certo, vi sono anche le condizioni in cui ci si trova. Perché a volte sono la povertà, l’assenza di lavoro, la malattia che impongono di lottare. Così è facile che senza una pressione esterna, senza ragioni vitali, si riduca la lotta. Quando non vi è dolore, non vi sono vuoti o indigenza, non si ha un’urgenza di spingersi ai propri limiti. Ma sovente sono queste le lotte che ci rendono indispensabili, perché nascono dalla scelta, non obbligata né necessaria, di essere persone migliori, arrivando oltre noi stessi. Lottando contro la pigrizia, contro la sfiducia, contro la comodità, contro la fatica. Diventando, in questo modo, unici e non solo uguali.

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