La pazienza è un’educazione della mente.
Il nostro cervello è predisposto per agire e reagire, per stabilire istantaneamente una direzione da prendere. La pazienza è largamente assente nella strategia della maggior parte delle aree neuronali.
Per questo la pazienza è una caratteristica egoica, non è solo una modalità d’agire. Riguarda la natura profonda del nostro io. Perché richiede la capacità di sostare nell’incertezza, in quello spazio interstiziale tra gli avvenimenti in cui nulla accade, ma accade qualcosa di impegnativo: l’attesa, la rappresentazione dell’incertezza, del caso, del tempo e della sua estraneità.
Certo non ogni atto di pazienza può essere positivo. Vi sono circostante in cui è meglio agire che attendere o tollerare. Un criterio per distinguere l’utilità dell’essere pazienti è la motivazione, la ragione che induce ad attendere, a temporeggiare. Così è possibile avvalersi inopportunamente della pazienza, quando è alimentata da codardia, opportunismo o pigrizia.
Ma per lo più la pazienza è virtuosa, perché essere pazienti è un atto di audacia e di sicurezza, sapersi trattenere in un tempo inerte, padroneggiando la mente che vorrebbe imporsi su ciò che accade. Nella pazienza l’io fa un passo indietro, rinuncia al controllo, si ecclissa a favore di ciò che dovrà accadere, del tempo di qualcosa d’altro o di qualcun altro. Esercitare pazienza perciò riguarda la capacità di trattenere la nostra mente nella condizione scomoda della subalternità. Essere pazienti richiede al nostro cuore di vedere nel mondo tanto valore da meritare che ci si consegni e affidi ad esso.