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GianMaria Zapelli elsewhere

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Mentire e tacere: quando è difficile dire quel che si pensa

Mentire e tacere: quando è difficile dire quel che si pensa

Un tema complicato la corrispondenza tra quel che si pensa e quel che si dice, che riguarda il mentire e il tacere.

Mentire: ovvero dire qualcosa di differente da ciò che si pensa. Un comportamento generalmente considerato scorretto. Poiché la sincerità è il mantra della fiducia. Certo, è evidente che vi siano menzogne opportuniste, inaccettabili, vergognose. Ma è anche probabile che ognuno incontri occasioni nelle quali la menzogna sia un dilemma, dove non è così palese il beneficio della sincerità.

Tacere: ovvero non dire, omettere, quel che si pensa. Non raramente il tacere può essere preceduto da una paura, che entra nel cuore frenando dal dire i propri pensieri. Si rimane in silenzio. Ma non tutti i silenzi portano con sé poco coraggio. Certo, vi sono timori da cui si è bloccati nel dire quel che pensa che diventano silenzio che asseconda e accondiscende ingiustizie. Ma vi sono anche timori benefici, da accogliere, perché le conseguenze a quel che si direbbe non sarebbero giuste e neppure necessarie.

L’opposizione interiore tra dire e tacere accompagna la vita con il suo dilemma denso di complicazioni, non solo perché massicciamente irrorato delle emozioni che ne vorrebbero prendere il governo, ma anche perché sul palcoscenico del dire o del tacere va in scena il delicato e sempre mobile equilibrio psicologico tra il bisogno di sentirci parte di una comunità (taccio, per non essere rifiutato, per evitare separazioni, fratture) e il bisogno sentire protetta e affermata la nostra unicità (parlo per non soffocare e sottomettere la mia identità, i miei desideri, la mia autonomia).

A complicare il dilemma tra dire che quel si pensa oppure ometterlo contribuisce un requisito fondamentale che plasma l’atto relazionale di dire: la capacità di dire, la capacità comunicativa di produrre una parola che non solo corrisponda a quel che si pensa ma, aspetto ben più impegnativo, possa essere ascoltata e innestarsi nell’attenzione dell’Altro. Occorrono infatti abilità sofisticate perché il proprio dire sappia produrre ascolto e non reazioni di malessere, che lo affosserebbero rendendolo inutile. Quando ciò che si dice sperando di venir ascoltati non si trasforma in ascolto pare piuttosto facile assolversi pensando: “Io glielo detto e se non capisce è perché non vuole ascoltare.”

In conclusione, sia nel mentire come nel tacere si annida una complicata vicenda dilemmatica che non si può liquidare con semplificazioni moralistiche, perché annoda e mette conflitto diverse spinte psicologiche. Una differenza fondamentale, come sempre quando si tratta della nostra esistenza psicologica, è quanto la scelta di mentire o di tacere sia totalmente consapevole e governata dalla coscienza. Può accadere invece che i dilemmi interiori rimangano sotterranei, evitando un faccia a faccia con la menzogna e il silenzio, con la fatica di dipanare paure e rinunce, ambizioni e orgoglio, compromessi e equilibrismo, con la vittoria delle ferite che hanno forgiato il nostro inconscio e le nostre emozioni.

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