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GianMaria Zapelli elsewhere

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Negazione e rimozione, due ripari invisibili che raccontano di sé stessi

Negazione e rimozione, due ripari invisibili che raccontano di sé stessi

Può accadere che qualcuno creda nell’esistenza di qualcosa a cui noi invece non crediamo. Oppure può accadere, e non così raramente, che qualcuno ci ricordi qualcosa che ci siamo dimenticati. Tra ciò che rende unico il nostro modo di esistere vi è anche la nostra collezione di negazioni e rimozioni.

Oltre alle forme più eclatanti, anche in forma collettiva, come la negazione della rotondità della terra o la rimozione del fascismo, vi sono in realtà numerose negazioni e rimozioni che avvengono in modo discreto, mimetizzato, disegnando la propria stoffa psicologica, e non solo quella culturale o ideologica. Perché entrambe sono strategie di cui si avvale la nostra regia inconscia.

Nel caso della negazione, ovvero nel rifiuto esplicito di accettare un fatto o un contenuto, può essere difficile riconoscere se sia all’opera un’inconsapevole matrice inconscia, oppure in quel che si sta respingendo vi siano fatti estranei a bisogni di difesa psicologica.
Negare l’uguaglianza tra gli essere umani può essere il prodotto di una cultura avvelenata, ma potrebbe anche portare in sé, sotterranea, l’angoscia per la perdita di potere, di sovranità. Negare che il proprio figlio sedicenne sia diventato un tossicodipendente anche per le proprie incapacità genitoriali, oppure negare che essere stati abbandonati della propria partner sia attribuibile anche alle proprie modalità d’essere, paiono forme massicciamente governate dal bisogno di evitarsi una ferita ciclopica alla propria autostima.

Quel che ha di impegnativo la negazione è di richiedere il ricorso all’argomentazione, all’articolazione di ragioni e spiegazioni. La negazione si avvale di una scena manifesta, esplicita, di parole e affermazioni. Dunque impegnativa perché si devono trovare argomenti convincenti, prima di tutto per sé stessi, per negare di aver commesso errori, di essere stati approssimativi o di non avere fatto del proprio meglio.
Anche per questo sovente le persone appaiono grossolane, inconsistenti nelle loro negazioni, perché gli argomenti a cui ricorrono sono raffazzonati o insostenibili. Eppure chi nega crede profondamente a quel che dice a sé stesso, a quel che si racconta attraverso le ragioni che ha trovato. Chi nega, anche contro l’evidenza, è imprigionato nel suo inconscio, che si batte come un titano per proteggerselo dal dolore che avrebbe la consapevolezza.

Più astuta e mimetizzata la rimozione, perché avviene totalmente dietro le quinte, di cui non ci si accorge, se non con il senno di poi, grazie a una prodigiosa capacità di introspezione o all’aiuto di chi ci ricorda quel che abbiamo rimosso. La rimozione è una forma di negazione radicale, totale. Il contento rimosso neppure giunge alla mente consapevole, rimane seppellito nella memoria dall’inconscio. Non occorre neppure lo sforzo di un’argomentazione. Le parole dette, il gesto scortese, persino gli insuccessi, non sono esistiti.

Anche per la rimozione esiste la difficoltà di riconoscerne il movente, perché potrebbe essere solo dimenticanza dovuta a carenze sinaptiche, per mancanza di capacità di trattenere nel presente quel che si è sentito o accaduto nel passato. Ma è rimozione quando si dimentica per risparmiarsi un dolore o la fatica psicologica di un’ammissione. È rimozione, per opportunismo psichico ed emotivo, quando si dimentica per evitarsi fatiche, responsabilità, doveri. E non occorre neppure spiegarselo perché tante volte si è ascoltato il figlio senza saperlo ascoltare. Non lo si ricorda e va bene così, almeno per la propria autostima.

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