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La fatica che richiede sentirsi “noi”. Tra la capanna e gli altri

La fatica che richiede sentirsi “noi”. Tra la capanna e gli altri

Il modo di vivere i nostri legami eredita il tempo che si vive. Così, potremmo chiederci come questo tempo stia mutando i nostri legami con gli altri?

Le predisposizioni neurobiologiche della nostra mente ci rendono esistenze sociali, dedicate a dar valore al noi. Per ragioni di sopravvivenza. Perché per millenni il cervello ha imparato che la sopravvivenza della specie ha bisogno della comunità e della riproduzione. Da soli non si sopravvive.

Eppure, non è lo stesso sforzo sentire io e sentire noi. Perché il noi ha un prezzo, quello di dover accantonare dosi dell’io. Il noi richiede di mitigare e affievolire l’io, di modulare con gli altri le nostre preferenze, le nostre convinzioni, le nostre scelte. Ci è richiesto lo sforzo di ascoltare, di tollerare, di pazientare, di accettare. Il noi ci tiene lontani dalla solitudine, ma non è esente da fatica.

Vi è un sentire noi come urgenza dell’affetto, del bisogno di amore, di amicizia e di legame che disseta l’io. Una ragione potente per sacrificare e rinunciare a dosi dell’io, ottenendo un noi che ci ricambia quasi sempre abbondantemente di ciò che perdiamo della nostra individuazione.

Ma vi è anche un altro modo del noi, del nostro legame con gli altri, non per procurarsi una comunità d’affetto, ma per costruire una comunità civile, di convivenza sociale. Anche per realizzare questo noi l’io deve privarsi un po’ delle sue proprietà e delle sue libertà. Deve impegnarsi. Per vivere questa forma del noi non ci si può affidare all’energia che ricaviamo dalla simpatia, dall’affetto o dal contatto accogliente. Il noi che supera il perimento dell’amicizia e dell’intimità relazionale, della prossimità affettiva, per millenni è stato alimentato dalla necessità della sopravvivenza: dell’insieme che protegge, della similitudine che soccorre, della legge che tutela. Amore o fragilità, affetti o vulnerabilità sono state le due cerniere del noi. 

Cosa sappiamo la mente possiede una costante plasticità. Muta attraverso le esperienze che vive. 

Questo tempo Covid-19 ci ha trovati con un sentimento del noi, quello necessario per estenderci oltre i legami affettivi, traballante e indebolito dalle prerogative del selfie, dalla singolarità solitaria delle scelte, dallo sfaldamento della cittadinanza e dell’autorità, dal privilegio dell’adesso. Poi per settimane abbiamo costretto la nostra mente a considerarci al sicuro solo tra le mura domestiche, con un timore rivolto al noi al di fuori di esse. Nella protezione della casa, abbiamo vissuto per molto tempo senza dover affrontare la fatica di adattarci agli altri, quelli esterni al perimento dell’affetto. Ci siamo dedicati all’io e al noi rassicurante e confortevole delle persone amate. Con una distanza costante dall’Altro, dislocato all’esterno del perimetro della sicurezza. Venivamo da un tempo che reclamava sicurezza e abbiamo trovato come risposta, ancor più drammatica, la sola sicurezza della capanna. 

Possiamo allora chiederci quali energie siano rimaste al noi che occorre per essere comunità. Quanto la distanza, arretrata nel timore e dall’abitudine a ritmi emotivamente confortevoli, possa aver indebolito il desiderio di sforzo e impegno, basato sull’adattamento dell’io alla responsabilità che richiede un legame con gli altri. Non per ottenerne in cambio affetto e abbracci, ma una civiltà e un futuro migliore insieme.

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