“Il nostro viso parla agli altri una lingua che a volte noi non comprendiamo” P. Brook.
Qual è il nostro viso? Quanto lo conosciamo? Sembrano domande illogiche, date le costanti occasioni che abbiamo per vedere, scorgere o rivedere il nostro viso. Non solo negli innumerevoli specchi, domestici o pubblici, ma anche attraverso l’abituale pratica degli scatti fotografici, con tanto di selfie, oppure di riprese video.
Ma solo dall’Ottocento lo specchio cessa di essere un oggetto piccolo, di lusso e per pochissimi, grazie all’introduzione di un nuovo processo produttivo che ne permetterà una diffusione popolare. Sino a poco più di duecento anni fa, salvo eccezioni privilegiate, l’unica percezione che si aveva del proprio volto era quella vaga, liquida e incerta che si poteva raccogliere in un riflesso dall’acqua. Ovvero: per moltissimo tempo gran parte degli esseri umani è vissuta senza la conoscenza quotidiana del proprio viso e, soprattutto, senza la necessità di averla.
Possiamo cogliere una traccia del mutamento umano nella crescente presenza dell’immagine e della riproduzione del volto. Da un tempo che consentiva di vedere raffigurato il volto solo negli affreschi o nelle tavole esposte nelle chiese, per i più, e per pochi nella ritrattistica privata, è dilagata la presenza del volto, fotografato o ripreso, affisso o proiettato, stampato o diffuso nei canali social. Si potrebbe dire che è deflagrata progressivamente un’epidemia della riproduzione del volto. Tra i suoi effetti una cresciuta sensibilità, se non occupazione e preoccupazione, verso il proprio volto, diventato consapevole interfaccia esistenziale.
Eppure, pur accompagnati costantemente dalla percezione del nostro volto, potremmo chiederci se lo conosciamo a fondo. O se invece ne conosciamo in realtà solo dei momenti, degli istanti, frammenti che estraiamo dal suo incessante flusso di movimenti ed espressioni. Non ci aiuta molto lo specchio, perché ne è la versione speculare, che come sappiamo, vista l’assenza di simmetria di ogni volto, è diversa da quella che viene invece osservata da tutti. Ma, soprattutto, a renderci difficile la consapevolezza nel nostro volto è di non essere mai lo stesso. Non solo perché il tempo lo muta, ma perché non è lo stesso appena svegli la mattina o al rientro esausto la sera. Non è lo stesso perché i pensieri non sono gli stessi, quando ci rallegrano oppure ci intristiscono. Non è lo stesso perché non è uguale quel che percepiamo e come.
Se vediamo dieci scatti che ci hanno fatto, quali consideriamo quelli del nostro volto più vero? E gli altri? Abbiamo del nostro volto una rappresentazione, una sinossi, che ricaviamo dalle percezioni che ne raccogliamo, che ricorrono nei modi (parziali e limitati) che abbiamo a disposizione per conoscere il nostro volto, nel suo appartenerci senza sosta, ogni istante della nostra vita.
Chi possiede il nostro volto meglio di noi, chi lo può conoscere con maggiore precisione, sono gli altri, attraverso percezioni che a noi sono precluse. Una persona che percepisce il nostro viso per un’ora può conoscerlo più a fondo di un nostro selfie o del momento in cui quella mattina ci siamo guardati allo specchio. Per questo, se volessimo impossessarci meglio della sua variegata e multiforme espressività, se ne volessimo essere più consapevoli, non sono sufficienti gli specchi e neppure i selfie, ci occorre sapere lo sguardo degli altri, quel che vi vedono che a noi sfugge, eppure che rivela e parla di noi così tanto.