Perdonare nobilita, lo sappiamo. Eleva l’io. Forse perché non è facile accantonare lo sgarbo, l’insolenza, l’offesa, per emettere un perdono, che concede all’altro il beneficio, forse immeritato, di un’accoglienza.
Ma è proprio così? Chi perdona è sempre nobile e guadagna in virtù? Oppure nel perdono si potrebbe nascondere, ancora una volta, la trama invisibile di un inconscio che mira a far tornare i conti per sé?
Non potrebbe esserci in ciò che noi crediamo di perdonare, nella giustizia che applichiamo per il nostro perdono, una bilancia poco imparziale e troppo partigiana? Non potrebbe esserci a volte un tornaconto un po’ furbo?
Si potrebbero mettere a fuoco due genealogie del perdono, due discendenze, che producono due modi di interpretarlo e viverlo.
Vi è il perdono che si concede, che si consegna a qualcuno, come dei benefattori che rilasciano un dono a chi pur non lo meriterebbe. “Ti perdono” equivale a una sorta di clemenza: “Meriteresti una punizione, ma te la risparmio. Ci metto una pietra sopra.”. E’ un perdono che gratifica, che consente il compiacimento di sentirsi straordinari per la sforzo che ha richiesto il proprio gesto di bontà. Un perdono che sovente si attende anche un ringraziamento, un apprezzamento. “E io che ti avevo perdonato.”. Insomma, ci guadagna di più l’ego di chi perdona del graziato.
E vi è un altro tipo di perdono, ben differente: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra.” Non si tratta di mettere una pietra sopra al proprio diritto di arrabbiarsi, di risentirsi, donando così il proprio perdono. Quella pietra nemmeno viene presa in mano. Perché ci si ricorda che non meno dell’altro si hanno motivi di cui farsi perdonare. Nel momento in cui osserviamo nell’altro il suo sbaglio arriviamo al perdono non perché ne siamo superiori, gratificati da un’aurea di bontà, invece perdoniamo perché come uno specchio il suo errore ci ricorda di essere anche noi autori di scortesie, di sgarbi, di dimenticanze, di opportunismi, di piccole o grandi omissioni, persino di bugie. Allora perdoniamo, non come il gesto che ci santifica, ma perché è l’occasione per perdonare anche noi stessi, carenti e imperfetti non meno di chi merita il nostro perdono.
Troviamo così nel perdono non la nostra gloria, ma la nostra finitudine, l’inevitabile di gesti, modi e azioni che potevano essere migliori. Troviamo l’umiltà di sperare di poter essere anche noi perdonati.