Applicato nei processi sociali, lo sdoganamento di un comportamento o di un pensiero corrisponde alla caduta dei freni applicati dalle dogane della morale collettiva. Si è sdoganato socialmente un modo di agire quando cessa di suscitare biasimo, di indignare, quando vengono meno la restrizioni etiche e di condanna che lo censuravano, costringendolo a rimanere nell’ombra perché produceva vergogna.
Infatti, la vergogna è una potente emozione collettiva, e quindi culturale, di autoregolazione dei comportamenti. Ogni società produce ciò di cui vergognarsi, da cui tenersi alla larga per potersi sentire inclusi nel suo abbraccio comunitario. Sdoganare un modo di agire significa liberarlo dalla vergogna da cui era inibito.
L’odio e il suo prodotto, l’aggressività, come sappiamo, sono una componente ineludibile della natura umana. Diversa da quella di altri animali, sempre regolata da ragioni di sopravvivenza della specie, l’aggressività umana è sovente anche il prodotto singolare e autoreferenziale di emozioni disfunzionali, senza benefici per la collettività e a volte neppure per sé stessi. Per questo da sempre la società umana, attraverso le sue modalità culturali e istituzionali, si è occupata di istituire dogane morali e legislative per frenare e regolare la libera circolazione dell’odio.
V’è allora da chiedersi, oggi, quali siano le dogane attive nel regolare l’odio. Quali sentimenti collettivi di vergogna abbiamo incorporato nell’animo da indurci a biasimare l’odio, a indignarci verso chi ne è autore e a vergognarci se ne siamo noi autori.
Ogni dogana produce necessariamente una limitazione alla libera espressione di sé, che è diversa dalla libertà, che invece richiede regolazione. Se per apprezzare la libertà occorre l’esercizio della riflessione, quando ci si sente limitati nelle proprie espressioni emotive si fa sentire la voce delle istanze meno razionali, più viscerali, dove si agita scalpitante l’odio e le sue aggressive manifestazioni.
L’odio cerca affrancamento, liberazione dalle redini di una dogana. Perché l’odio possiede una natura esaltante: la sua liberazione consente un’euforia emotiva, di potersi sentire al di là e al di sopra di ogni legge, di ogni barriera, di ogni limitazione. Un’esaltazione che è ebbrezza di un potere, quello consentito dal non sottoporsi a nessuna dogana, neppure a quella più umana della vita, del rispetto della vita. Nell’odio urla la ribellione alla propria vulnerabile condizione esistenziale, di essere assoggettati se non addirittura condannati alla fragilità.
Non a caso l’odio che ha sfondato la dogana del biasimo sociale, circolando privo di autoregolazione, nelle parole dette e scritte senza più vergogna di sé, negli insulti o nei gesti distruttivi persino compiaciuti, nelle reazioni aggressive sempre giustificate, frequentemente è presente dove vi sono le esperienze più dolenti della povertà, dell’indigenza economica, scolastica e sociale, dell’impotenza.
Può accadere allora, e forse è accaduto, che si sia liberata l’ebbrezza di odiare senza sentirsene macchiati, senza pentimento, senza rimorso. Può accadere, e forse è accaduto, che siano state sdoganate onnipotenti individualistiche emozioni distruttive e si sia incrinata la gracile libertà della coesistenza.