Freud, nel dare geografia e mappe al nostro mondo psichico, non solo vi ha collocato l’azione sotterranea del nostro inconscio, dedicata a proteggere e pilotare l’io nelle sue manifestazioni. Ha anche identificato la nostra irriducibile incompiutezza, la tensione insanabile che ci spinge oltre i confini e le esperienze che viviamo. Chiamando Ideale dell’io questa trazione dell’animo ad essere ulteriori.
Siamo, per natura esistenziale, incompleti. È ancorato in noi il sentimento di poter essere di più di ciò che siamo, di poter vivere anche altro a quel che ricorre nella nostra vita. Di avvicinare luoghi, persone, sorrisi, esperienze che stanno oltre il nostro quotidiano, che ripetiamo e che pur abbiamo, nella maggior parte delle volte, scelto.
Sovente ha contorni vaghi, questo mondo che ci pare desiderabile, che ci manca a renderci completi. Sovente è un’eco nell’animo, un riverbero impreciso di una luce che scorre sotto la soglia. Ne abbiamo un sapore, una nota che percepiamo dietro l’affollarsi di quel che viviamo. Compare a volte con più forza, negli interstizi di silenzio o di dolore, di percepire che qualcosa di più o di diverso potremmo: abbracci che non abbiamo, viaggi che ci seducono, legami che vorremmo. Come un destino che stiamo lasciano incompiuto e che risuona di nostalgia, di poter superare noi stessi ed essere ultimati.
Freud ha saldato questo anelito a quel che impariamo nelle esperienze, come condizione per essere amati, identificati, ben saldi nella vita, a cui tendere come ambizione psicologica. Ma non vi è solo l’eredità di un’infanzia che ci ha modellati nei criteri d’essere. È nelle vene e nel sangue della nostra natura portare sempre con noi la nostra incompiutezza. Nel cuore inguaribile il desiderio, il sentimento insopprimibile di poter essere anche altrove di dove ci si trova, più realizzati di quanto già non si sia, più vasti di quanto non siano già i nostri perimetri.
Forse non ci è dato di avere pace, di avere un paradiso che sia esattamente tutto ciò a cui aspiriamo, e abbia tutte le esperienze che desideriamo. Perché desiderare ha necessità di carenza. Per essere premiati dal desiderio, dal suo potere di portarci oltre noi stessi, di trasfigurare le nostre misure quotidiane, ci occorre di crederci abbozzati, incompiuti, parziali. Così, desideriamo, credendo in altre stelle che potremmo raggiungere.
Ma ne abbiamo anche una mestizia, perché quando ci volessimo mettere in cammino verso questi bagliori di una vita possibile, scopriamo che è intangibile, sfuggente. Ci areniamo nella difficoltà di cambiare quel che siamo e viviamo, per spostarci dove sorga l’arcobaleno.
Sicché, abbiamo con noi il nostro desiderio, la sua presenza per lo più defilata, mentre siamo impegnati in quel che siamo. Che a volte sentiamo scintillare più forte e ci pare di poterlo realizzare, quel mondo in cui essere un po’ diversi e di più. Salvo, poi accettare di averne l’eco, le sue sirene incantevoli, con la piccola o grande malinconia di crederci anche di più e non poterlo essere.