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GianMaria Zapelli elsewhere

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So di non sapere: quanto ricorriamo alla metacognizione?

So di non sapere: quanto ricorriamo alla metacognizione?

Già l’immenso Socrate lo aveva compreso e la considerava misura a cui attenersi: “So di non sapere”.
Parrebbe un gioco di parole, un sapere che afferma la propria negazione. Invece fonda e definisce un atteggiamento, che prima di essere una rotta cognitiva è un modo di essere in rapporto a sé stessi, per come ci si affida a quel che si conosce. So, ed è certezza a cui mi assoggetto, di possedere un sapere sempre irrimediabilmente insufficiente, parziale.

Oggi, questa predisposizione cognitiva si usa chiamarla “metacognizione”. La capacità di valutare la completezza e la qualità di quel che si conosce e di cui ci si avvale per decidere e agire.

Ricorre, in coloro che possiedono con eccellenza un’arte, una scienza o una professionalità, la meticolosa capacità di valutare la propria opera, riconoscendone errori e ciò che manca. Bach, Leonardo, Michelangelo, Picasso, Strehler sapevano comprendere nei dettagli cosa vi fosse di buono o di imperfetto in quel che facevano, condizione essenziale per apportarvi contenuti come nessuno aveva mai fatto prima.

La metacognizione, poiché rivolta a vigilare e stabilire la provenienza e la completezza del proprio sapere, adotta un arretramento, da quello che si è compreso o si sta facendo, una prospettiva critica necessaria per  poterlo correggere e migliorare. Ed è capacità, perché non è in dotazione spontanea, già equipaggiata nei processi cerebrali della mente. Le occorre educazione, per abituare la mente a considerare parziale quanto crede di aver capito, i pensieri e le conclusioni che si sono formati, pur se accompagnati dal sentimento della loro certezza. Per questo la metacognizione richiede una forzatura psichica e neuronale, per tenere a bada la prepotente attitudine della mente di farci credere che sia sufficiente quello che abbiamo visto, pensato, compreso. Agisce opponendosi al meccanismo biologico e anche emotivo che cerca rassicurazione, certezza, per evitare la paralisi disagevole del dubbio e l’inquietudine dell’incertezza.

Perciò la metacognizione è disciplina autocritica, che costringe all’umiltà, frenando la  dispotica percezione di completezza delle conoscenze che meccanicamente la mente mette a disposizione.

Ma oggi è possibile osservare, nell’affermazione isolata della propria soggettività, nella dieta autoreferenziale di cui ci si nutre, che avere torto, non aver compreso, possano essere vissuti con lo stesso sentimento che si attribuisce all’essere incapaci, inabili o inadeguati. L’io senza confini alla propria affermazione identitaria patisce come una ferita l’ignoranza, il non sapere. Così, senza avvalersi del dubbio su quel che si conosce, ci si affida alle rassicurazioni psiche e neuronali di un sapere approssimativo senza saperlo tale. Perché per sapere di non sapere, condizione per impossessarsi del sapere, occorre essere capaci di considerare l’ignoranza il sapere di cui continuamente  ricordarsi.

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