Può capitare di sentirsi in colpa perché si è felici, per il gioioso tempo trascorso con gli amici, per la spensieratezza nel vedere un film comico, per il bisogno di non pensarci, di guardare altrove, di proteggere un sentimento di leggerezza.
Non vi è scampo, il quotidiano si affolla di catastrofi, di bambini bombardati, di disastri ecologici, di donne e uomini che soffrono. Non vi è scampo, quotidianamente le immagini e le parole si impongono, assediano, si insinuano nei canali che abbiamo aperti verso il mondo, imponendo allo sguardo un’umanità che patisce. E quando gli occhi vedono il dolore è inevitabile che arrivi al cuore.
Così si è costretti a dividere il cuore, i sentimenti, il sentire. Si è costretti all’incoerenza, a un sentimento tra più faticosi da vivere nella relazione con sé stessi: sentirci disuniti. Perché abbiamo desiderio di gioia, di leggerezza, ma pure non possiamo sottrarci alla pena, alla pietas, alla partecipazione empatica verso bambini, donne e uomini travolti dal dolore e dalla morte. Allora è fatica psicologica, aspirare alla spensieratezza di una cena con gli amici e non voler sottrarre la coscienza alla consapevolezza della catastrofe di una terza guerra mondiale a pezzi, di un pianeta di cui stiamo rapidamente devastando l’ambiente.
Per sostenere la fatica di questa costante disgiunzione emotiva a volte la psiche ricorre a delle difese, che allentano la prostrazione dell’essere toccati dal dolore. Un egoismo della sopravviveva che sviluppa assuefazione e anoressia emotiva, che contrasta la frustrazione dell’impotenza con la negazione, con il pensiero che trova ragioni meno drammatiche, che normalizza, che banalizza.
Essere esposti quotidianamente al dolore potrebbe causare una disumanizzazione del sentire. Ci si disumanizza quando si perde la capacità che ci rende umani: saper partecipare emotivamente ed empaticamente alla vita emotiva degli altri. Il dolore dell’Altro si allontana e con lui si allontana l’Altro, diventando solo notizia.
Pare allora necessario difendere e proteggere la propria umanità, non smarrirla nell’indifferenza e nell’assuefazione. Ma pure è indispensabile proteggere la propria gioia, l’allegria lieve degli abbracci e dei sorrisi. Saper imparare la forza che richiede essere divisi, dissociati, nel saper godere totalmente e con pienezza della propria pace condivisa con chi si ama e nel saper patire del dolore di chi questa pace non la può avere.
Non si tradisce la pietà, la commozione con la propria felicità, la si tradisce se la si esclude dalla propria vita.
Potrebbe aiutare questa impegnativa convivenza psichica soffermarsi su singoli gesti di pace, accudire e realizzare singoli episodi di gentilezza e tolleranza. Vedersi e sapersi autori di pace e gentilezza, ancorché minuscola, aiuta il cuore a patire del dolore degli altri e a gioire riconoscente della propria felicità.