L’irresistibile protettivo e onnipotente richiamo della vendetta

L’irresistibile protettivo e onnipotente richiamo della vendetta

Per quanto razionalmente indifendibile la vendetta possiede una potente forza attrattiva. Difficilmente si è esenti da desideri e fantasie di vendetta verso chi sentiamo autore di una scorrettezza, che per lo più e fortunatamente rimangono solo nella mente. Prolifera di spettatori emotivamente partecipi la filmografia con storie di vendetta.
La vendetta non ha mai buone ragioni, argomenti che la rendano oggettivamente indispensabile e positiva, poiché è un risarcimento distruttivo, che aspira a riprodurre una ferita che si è patita. È un moto palesemente mortifero.

Dunque v’è da chiedersi perché è irrefrenabile la fantasia di vendicarsi, nonostante sia riprovevole?

Poiché nulla di ciò che viviamo psichicamente è privo di una ragione, ancorché possa non possedere buon senso o ragionevolezza, ancorché possa apparire dannoso, ogni movimento emotivo, ogni atto psichico nasce e si impone perseguendo uno scopo, lo stesso scopo imperativo, che sovente opera in modo inconscio: proteggere noi stessi, ciò che abbiamo caro e ciò che ci tiene integri.

Sicché, anche nell’affiorare del desiderio di vendetta è da ricercare la potente e prepotente meccanica psicologica che presidia e difende il nostro io, in barba al buon senso, alla morale, alla ragionevolezza.

La fantasia di vendetta, e ancor di più il suo compimento, immergono in un’esperienza inebriante e indicibile, inammissibile per una ragione che richiede un principio di realtà: l’onnipotenza.
Nell’immaginare di danneggiare chi ci ha danneggiati, nell’immaginare e augurarci il suo dolore, ci si inoltra in un territorio che oltrepassa il confine della nostra condizione umana. È il territorio della morte, dell’essere autori di morte. Il dominio della morte non riguarda solo l’interruzione di una vita, ma anche ogni esperienza in cui vi sia una ferita, una separazione, un dolore.
Annichilire un essere umano, lacerare i suoi sentimenti, ferirlo emotivamente e non solo, consentono un’inconfessabile esperienza di potere: il potere di perpetrare un danno, emotivo o fisico, a un’altra persona. Un gesto che eccede i confini della limitatezza umana, violandoli attraverso l’atto di ferire qualcuno, per lasciarvi il proprio segno di morte.

La vendetta per questo, per il suo fondamento onnipotente, è un risarcimento, un rammendo, una riparazione psicologica. Quando accade di subire un torto, quando siamo soverchiati da qualcuno che ci inganna o umilia, si precipita in una condizione di vulnerabilità, siamo esposti alla nostra fragilità. Nella scorrettezza subita si rispecchia la nostra debolezza, di essere disarmati e indifesi nel rapporto con cui ha avuto il potere di ferirci, di lasciare su noi il suo taglio. E dove vi è un taglio accorre il nostro inconscio con le sue cure, con le sue strategia riparatorie.

Vendicarsi, anche solo fantasticarlo, è un farmaco cicatrizzante, perché ci libra e solleva in un gesto onnipotente, che ci restituisce un sentimento di forza e di potere.
Non raramente il sentimento di fragilità, di vulnerabilità, di marginalità innesca nell’inconscio un moto protettivo, spingendo verso la vendetta. Con la sua irragionevole onnipotenza di mettere a morte sentimenti, idee, ricordi, sorrisi, persino esseri umani, conforta il bisogno del proprio io di sottrarsi alla fragilità.

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