Lo vediamo, il crollare di recinzioni che avevamo e che ci contenevano. E parrebbe buono quando uno steccato cade, quasi fosse un libertà che si scioglie. Così si è liberata, senza il recinto del pudore e della temperanza, la critica senza freni contro tutto ciò che sembra un gesto di bontà, di attenzione o di pietà. E’ scomparso il sentimento di reverenza verso le emozioni che ci rendono solidali, tolleranti, partecipi. Essere buoni è diventato un fastidioso “buonismo”. Essere solidali è palesemente biasimato come fosse un’ostentazione stucchevole. Le magliette rosse o le parole di commozione sono abbattute da una critica che le associa a un molesto intellettualismo d’élite. La gerarchia dei valori, che poneva sul piedistallo più alto il rispetto, la moderazione dei comportamenti, la tolleranza e la generosità è stata spianata, come fosse stato un modello fastidioso e aristocratico. Liberi, liberi nel piacere di insultare la commozione per chi soffre.
Così chi della tolleranza e della bontà sarebbe paladino indietreggia, quasi vergognandosi di un modo che viene associato alla presunzione o alla superbia di chi si crede meglio. Così la tolleranza e la bontà coerenti con se stesse non alzano la voce, non si fanno forti, ma si ritirano, lasciando spazio alla libertà militante di chi disprezza e accusa.
Forse la bontà, la tolleranza e la pietà hanno bisogno di ritrovare la loro voce. Ma non sperando e auspicando che si plachi l’urlo e l’aggressione. Forse la ragione per il tanto silenzio di chi crede nella bontà non è nella troppa libertà dell’aggressione, ma nella troppa riottosità nel difendere, sostenere e rivendicare la bontà. Pur in modi educata e misurati, forse anche la bontà dovrebbe scendere in piazza.