Ci occorre equilibrio e per lo più se ne occupa per noi una regia inconscia. Dei molteplici sentimenti che ci coinvolgono, del flusso delle esperienze che ci accadono, degli altrettanti desideri, delle incessanti emozioni, di ciò che ci tocca e ciò che vorremmo ci occorre un equilibrio. Tenere insieme e allontanare, vivere e ignorare, raccogliere e disperdere, un equilibrio che ci consenta di rimanere in piedi, con una sufficiente dose di sicurezza, di incolumità e magari di felicità.
A volte l’equilibrio che ci occorre è di compensare quel che ci danneggia, ci ferisce, ci incrina. Ristabilire una proporzione, aggiungere dove manca, togliere dove è troppo. È un meccanismo di difesa. Per poterci accettare, per crederci capaci e stimarci abbastanza. Così bilanciamo sproporzioni o carenze con il loro opposto: un eccesso di timori con il paracadutismo; scarsi risultati professionali con un’ossessione per il proprio fisico; il vissuto di non avere un controllo sulla propria vita con un eccesso di controllo della vita degli altri. Adottiamo comportamenti, facciamo scelte, cerchiamo esperienze per compensare vuoti, mancanze, debolezze. Cerchiamo fonti di luce per scacciare le ombre che insediamo la nostra identità.
Compensare non è necessariamente dannoso. Anzi, biologicamente il nostro organismo è predisposto a ottimizzazioni selettive, compensa carenze neurofunzionali della mente concentrandosi su funzioni e routine cognitive che hanno migliori performance, ottenendo così di presidiare l’efficacia delle relazioni con l’ambiente.
Dunque, benefico può essere compensare, perché aiuta trovare risorse, rigenera possibilità. Più problematico quando viene lasciato alla supervisione dell’inconscio. Perché celate rimangono le ragioni che ci dirigono verso modi di essere, scelte e preferenze, quando nelle retrovie rimangono nascoste carenze, frustrazioni o fallimenti che cerchiamo di compensare. Con la possibilità di essere dominati da comportamenti ossessivi, irrigiditi, nello sforzo di realizzare un traguardo, un modo d’essere, un approdo narcisistico che possa equilibrare una debolezza, che rimane esclusa dalla consapevolezza.
Abbiamo, allora, l’ennesimo dilemma della conoscenza di sé. Se accontentarsi di un equilibrio che pur potremmo trovare e potrebbe darci benessere, ma in cui vi è celato il ruolo delle nostre carenze, dei nostri timori. Oppure, se portare alla luce quando le nostre energie, le nostre decisioni, i nostri modi di essere, soprattutto quando ci irrigidiscono e ci monopolizzano le energie, vengono mossi dal bisogno di nasconderci paure, insuccessi o fragilità. Certo, il rischio di quel che si scopre potrebbe cambiarci la vita, quando meno l’idea che abbiamo di noi. È il rischio della consapevolezza, della libertà di essere.