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GianMaria Zapelli elsewhere

Un contributo psicologico
per una vita consapevole,
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Non si rinuncia (quasi) mai a sé stessi

Non si rinuncia (quasi) mai a sé stessi

Accade di sentirsi costretti a rinunciare a sé stessi. Ci si potrebbe sentire impoveriti, perché la rinuncia è eco nel cuore di una privazione di sé. E sembrerebbe che a opporsi vi sia da un lato la nostra identità, a cui si contrappone il mondo esterno, che richiede di fare un passo indietro, di tacitare sé stessi, come prezzo per evitare conflitti, lacerazioni, fatiche. Quel che si perde di sé pare inevitabile, perché costretti da un imperativo esterno.

In realtà, ciò che ci impone la nostra relazione con il mondo è dover scegliere, non quali parti di noi stessi proteggere e quali sacrificare. Si potrebbe invece credere di essere stati costretti a ciò a cui abbiamo rinunciato, es. la sincerità oppure l’onestà, invece che riconoscere nelle parole abbandonate, nelle azioni trattenute, nei desideri tacitati, l’esito di una scelta che avevamo a disposizione. Vi è rinuncia perché la vita non consente di vivere ed essere tutto quel che vorremmo, ma lascia nelle nostre mani la scelta di cosa conservare e perdere di noi stessi.

È noto che la nostra mente è una federazione eterogenea di bisogni, desideri, abitudini, valori. Molto distante da un’omogenea e unitaria identità, coerente nelle sue spinte e nei suoi modi di essere. Dentro di noi coesistono e sovente confliggono dualismi, contrapposizioni. Per questo siamo costantemente costretti alla sproporzione tra tutto ciò che siamo e una realtà con cui non è possibile essere tutto, quando quel che siamo è contraddittorio. Nella rinuncia si palesa questo dilemma, il disagio di un conflitto tra parti di noi stessi divergenti: vorremo dire quel che pensiamo ma ne temiamo le conseguenze, trovandoci nel conflitto tra l’aspirazione a dire il nostro pensiero, opposta a quella di evitarsi il disagio se si dicesse quel che si pensa.

Perciò se si tace, rinunciando alla trasparenza, non è perché l’esterno ci ha costretti al silenzio, ma perché, nella scelta che dovevamo fare trovandoci davanti all’inconciliabilità tra i nostri bisogni, si è preferito il silenzio alla fatica della parola.
Vorremmo uscire a cena con la persona amata ma avvertiamo la sua malavoglia. Un altro dilemma tra bisogni opposti: voler impegnarsi nel suscitare nell’altra persona un desiderio che pare assente oppure preferire la comodità della rassegnazione, che evita lo sforzo e il rischio di fallire.

L’esperienza della rinuncia mette in relazione antagonista componenti diverse di sé, bisogni e desideri del proprio eterogeneo mondo di valori, esigenze, emozioni e paure. Senonché, se consideriamo le nostre rinunce come il prodotto di un obbligo a cui non ci si poteva sottrarre, credendo di non avere alternative, la scelta viene rimossa e delegata all’opera inconsapevole dell’inconscio, che facilmente preferirà le rinunce meno dolorose o più routinizzate. Impossessarsi delle rinunce è dunque proteggere la propria libertà, perché saper rinunciare significa scegliere, scegliere la parte di noi stessi che preferiamo essere, irrinunciabile, anche se costa molta fatica.

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