L’infinito è un concetto chiaro, ma non è come averne un’effettiva esperienza. Forse un’esperienza che lo avvicina è quella dell’intimità, attraverso l’ambiguità che porta in sé.
Pensare non è un’azione naturale, semmai culturale. Il modo di trasformare l’osservazione e le esperienze in conoscenza, in convinzioni, è la conclusione di un’educazione culturale, a cui si appartiene, che ha alle spalle un percorso di migliaia di anni nel forgiare i presupposti e le coordinate dei modi di convertire l’esistenza in pensieri. Il logos a cui siamo ancorati, che pratichiamo nel pensare la realtà, scaturisce da alcune premesse che non hanno nulla a che fare con la realtà. Tra le premesse sovrane che amministrano il pensiero della realtà ve ne sono due: che non debba esservi contraddizione in quel che si pensa e che ogni cosa possiede una precisa delimitazione, un limite, che consente di poterla identificare univocamente. Così, già nei suoi albori, nell’epoca greca, il pensiero considerava che tutto ciò che è debba anche necessariamente essere, ovvero poter essere pensato in modo preciso, definito, delimitato (Parmenide). Lungo questo itinerario il pensiero ha partorito una realtà di dualismi, che oppongono contenuti inconciliabili, estranei, che consentono una conoscenza che per impossessarsi della realtà fissa perimetri e differenze: giusto/sbagliato; anima/corpo; dentro/fuori; bello/brutto; coraggio/paura.
Dunque, pensare non è solo un’azione di sapere, è anche un’andatura esistenziale, perché attraverso i meccanismi – culturali – che ha adottato organizza la realtà per limiti e perimetri, per inizi e conclusioni, escludendo così l’esperienza dell’infinito, che invece non possiede limiti.
Ma pur esiste, insopprimibile, anche l’esperienza perturbante, disturbante, eversiva, evasiva, e per questo impensabile, dell’ambiguità. Se il pensiero duale consente di pensare un odine, la collocazione ordinata di ogni cosa nei suoi limiti e in ciò che la rende incompatibile con altro, nell’ambiguità si scompaginano i confini, le demarcazioni, le opposizioni.
Si potrebbe concepire l’ambiguità come una carenza della realtà, una negatività dannosa, perciò da superare per accedere a una realtà distinta e differenziata. Oppure, si potrebbe emanciparla, liberala, perchè nell’esperienza dell’ambiguità, nella sua elusione dei confini, nella sua indeterminazione, nella sua collezione di opposti, nella sua resistenza ad essere assegnata a un limite, è ciò che di più vicino possiamo dell’esperienza dell’infinito, di ciò che non ha confini e demarcazioni, che contengono l’esperienza nella chiarezza di un chiaro perimetro.
E tra le esperienze dell’ambiguità che avvicinano all’infinito vi è quella dell’intimità tra due persone. Poiché nulla è più affollato di contraddizioni, di indeterminazione, di inseparabilità e coesistenza di opposti, di una relazione intima. Un’esperienza che per questo non ha nel pensiero la sua conoscenza, ma nel corpo, il nostro palpitante teatro dell’ambiguità, dove è unito ciò che invece il pensiero separa.