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GianMaria Zapelli elsewhere

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Che ne facciamo del negativo?

Che ne facciamo del negativo?

Uno dei tanti aspetti che ci rendono differenti gli uni dagli altri è come gestiamo il negativo in cui ci imbattiamo. Perché è quasi impossibile non incappare nel negativo: qualcosa non va come avremmo previsto, non troviamo ciò che stiamo cercando, l’auto si inceppa, scopriamo che ci hanno mentito, perdiamo un appuntamento. Come sono esperienze che viviamo negativamente anche alcuni stati d’animo che ci toccano faticosamente: risentimenti, invidia, mortificazioni, ira e altri simili.

Come affrontiamo queste nostre occasioni spiacevoli, sgradite, fastidiose? 

La nostra psiche tende a considerarle come dei rifiuti da smaltire, di cui liberarsi, per non intossicarci, per non avvelenare il nostro animo. Dunque: come le smaltiamo, come ce ne liberiamo? 

Questa opera di smaltimento e bonifica è una delle principali attività di soccorso a cui provvede il nostro inconscio, con la sua azione sotterranea.

Una strategia inconscia che viene adottata frequentemente è portare fuori da noi il negativo, collocarlo all’esterno della nostra identità e del nostro perimetro. Lo elaboriamo mettendolo fuori dal portone di casa, sul marciapiede: l’appuntamento a cui siamo arrivati in ritardo, la mancanza di sincerità di cui siamo stati oggetto, l’assenza di attenzione per le nostre parole, l’odio che proviamo per qualcuno. Le cause sono fuori. Teniamo pulita la casa, ma inquiniamo l’ambiente intorno a noi. Esportando all’esterno qualità negative, piuttosto che riconoscerle a noi stessi, stiamo proteggendo la nostra autostima, ma stiamo anche creandoci la rappresentazione di un modo sfavorevole con cui dover convivere. Un modo che diventa più aggressivo, scorretto e minaccioso di quanto lo sia in realtà. Poiché lo abbiamo riempito dei nostri rifiuti, del nostro negativo.

Un’altra strategia è tenere tutto in casa, tenere dentro di noi il negativo, sentircene costretti, senza spostarlo altrove. Ci facciamo carico di tutto ciò che non va come dovrebbe con cui siamo in contatto, ci sentiamo in colpa facilmente di che non accade come dovrebbe, accettiamo il fardello. L’effetto di questa inclinazione è di interpretarci come centrali e determinanti nelle esperienze di negativo che viviamo. Si tratta anche in questo caso di avere un beneficio: poterci sentire protagonisti di quel che ci accade, di averne un vissuto di controllo, fosse anche e soprattutto qualcosa di negativo. Per quanto spiacevole, otteniamo la percezione onnipotente di essere indispensabili e centrali. Salvo, ed è la conseguenza disfunzionale, averne in cambio una fatica esistenziale che paralizza e danneggia.

Vi sarebbe una terza possibilità di smaltimento del nostro negativo: il compostaggio. Quando non lasciamo all’inconscio il compito di occuparsi dei nostri rifiuti psicologici, ma recuperiamo il negativo vissuto e lo trasformiamo, attraverso una conversazione interiore, in fertilizzante, applicando le due fasi del compostaggio:

  • la fase attiva, nella quale separiamo l’esperienza negativa da ciò che ci impedisce di vederla nitidamente nei suoi fatti: pregiudizi, timori, abitudini cognitive;
  • la fase di maturazione, necessaria quando dobbiamo affrontare esperienze negative più impegnative, perché ancorate nella nostra storia psicologica, che richiede tempo e continuità di riflessione e conversazione con sé stessi, per ammorbidire la durezza delle ferite che si sono cicatrizzate, che ci stanno consegnando a vissuti negativi ricorrenti.

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